Avvertenza. Dato il carattere molto particolare di questo post, si è sentita l’esigenza di scriverne un altro primariamente per indicare i pecci che vivono in città. Nel contempo, nel post ‘associato’, si è approfittato per inserire ulteriori informazioni sui caratteri della specie.
Questo post è nato da una vacanza estiva sull’Altopiano di Asiago, passata in compagnia del ricchissimo Arboreto salvatico di Mario Rigoni Stern. Se c’è un albero simbolo dell’Altopiano questo è di sicuro l’abete rosso.



Un abitante di città che non conosce i boschi butterà là un generico ‘pino’ nome che per molti designa qualsiasi sempreverde con gli aghi; una persona poco più esperta riuscirà a correggerlo dicendogli che si tratta di un ‘abete’, ed è già gran cosa anche se il termine non chiarisce di che specie si tratti. Un conoscitore di alberi non si accontenterà e vi aggiungerà l’aggettivo ‘rosso’, risolvendo la specie: abete rosso. Se vuole essere più essenziale ed elegante, il conoscitore preferirà al binomio un nome solo: ‘peccio’. Il termine – azzeccato – è rivelato anche dal nome del genere di appartenenza, Picea. Da peccio deriva anche la parola ‘pecceta’ per indicare un bosco in cui l’abete rosso è la componente prevalente.
Ebbene, i pecci furono scelti dalle genti degli Altopiani vicentini (Asiago, Lavarone e Folgaria) nella prima metà del Novecento per ripopolare i boschi devastati dai combattimenti della Prima Guerra Mondiale.
«Da ragazzi, alla festa degli alberi, erano sempre piantine di peccio che mettevamo a dimora nelle ampie chiarie causate dai combattimenti; come sempre di peccio erano centinaia di migliaia le piantine che i miei compaesani piantavano appena la neve liberava il terreno»
(M.Rigoni Stern Arboreto salvatico – Einaudi 1991, pag.11)
Negli abeti le foglie (aghi) sono attaccate singolarmente sui ramuli. Ciò permette di distinguerli dalle altre conifere come larici e cedri, dove gli aghi sono disposti in rosette e come i pini, dove gli aghi sono di solito appaiati e più lunghi.


Sono rimasto sorpreso dai tanti colori che possono assumere le pigne – ovvero una modificazione dei coni femminili una volta che vengono fecondati dal polline: il loro colore va dal verde al castano chiaro fino al marrone-violaceo. Una volta identificato che si tratta di un abete, il portamento delle pigne non lascia dubbi al conoscitore poco più che neofita: se sono pendule si tratta di abete rosso, se sono ritte all’insù, si tratta di un abete bianco (Abies alba) o di un altro abete. Un altro carattere diagnostico riguarda la forma degli aghi, ma richiede un’osservazione più ravvicinata: gli aghi sono appiattiti nell’abete bianco e a sezione quadrangolare nell’abete rosso.

A maturità, le pigne dell’abete rosso si staccano dalla pianta e tappezzano il sottobosco. Alcune di esse riportano i segni del pasto di scoiattoli, moscardini e altri roditori. Essi liberano le pigne dalle squame alla ricerca dei semi (alati) tra una squama e l’altra, lasciando a terra il torsolo centrale.
«I semi venivano dalle foreste della Val di Fiemme che, dicono gli esperti, sono le più belle e dànno il migliore legname delle Alpi.»
(M.Rigoni Stern Arboreto salvatico – Einaudi 1991, pag.11)

«Ora a distanza di settant’anni, ci si rende conto che fu errore impiantare boschi puri di peccio: la monospecie e la coetaneità hanno un equilibrio molto fragile […]. Ma allora si trattava di ricostruire in fretta la foresta distrutta e di coprire così i vistosi disastri della guerra.»
(M.Rigoni Stern Arboreto salvatico – Einaudi 1991, pag.11)

E ora, una triste ma doverosa carrellata di immagini …

passaggio della tempesta Vaia (28-29 ottobre 2018). In primo piano alcuni abeti rossi rimasti in piedi e sullo sfondo ciò che resta della pecceta.
Si stima che circa 60 milioni di alberi siano stati abbattuti dalla tempesta Vaia, che in punti come questo raggiunse la forza di ‘uragano’. La biomassa accumulata dal bosco – qui prettamente abete rosso – in quasi un secolo di vita, ora giace accatastata e pronta per essere caricata e trasportata su dei possenti autoarticolati ai depositi temporanei in Valsugana e da lì, a quanto mi è stato detto da una fonte non verificata locale, in Cina.

C’è chi ha affermato che la tempesta non avrebbe avuto effetti così drammatici in presenza di un bosco più diversificato. I venti di scirocco di questo evento estremo raggiunsero in Trentino e Veneto punte di 150-200 km/h: gli esperti ritengono che qualsiasi bosco – quand’anche esso fosse strutturato e disetaneo – subirebbe enormi danni a causa di eventi naturali estremi come questo.
Davanti a una catasta di tronchi pronti per essere caricati, ho stimato il numero di anelli di accrescimento di alcuni degli esemplari più imponenti: ne ho contati circa 80-90. I conti tornano: si tratta di alcuni degli alberi piantati dalle genti dell’Altopiano dopo la Grande Guerra, tra gli anni Venti e Trenta del ‘900.

Importante è comunque liberare i versanti dalle migliaia di piante morte, per non lasciare campo libero a orde di larve fameliche che possono attaccare sia i cadaveri sia i superstiti. Da errori compiuti in passato si è imparato che, lasciando i tronchi morti in loco, le popolazioni di insetti decompositori ‘esplodono’ in conseguenza della grande disponibilità di cibo, causando l’ulteriore perdita del 25% in più di alberi sani.
